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INCIPIT

Era il mio primo giorno di scuola e lo avevo atteso per tutta l’estate. In realtà di più, perché lo immaginavo sin dal primo giorno di scuola di mio fratello, poi quello di mia sorella, che invidiavo un sacco, con i loro libri e i quaderni a righe e a quadretti.

Ora era il mio turno e quella mattina mi alzai ben prima dell’alba. Chissà se tutte le ore prima dell’alba sono come quelle, oppure solamente nel primo giorno di scuola...

Quando mamma entrò per svegliarmi avevo già indosso l’abito scelto per l’occasione. Lei passò le dita tra i miei capelli e mi sistemò l’ultimo bottone. La colazione era pronta e anche il nonno era accorso in cucina, per non mancare a quell’appuntamento. Credo che anche i nonni attendano con impazienza il primo giorno di scuola dei nipotini.

Fu papà a posare il caffè e, guardandomi affettuosamente negli occhi, provò a spiegarmi che quel giorno non ci sarebbe stata lezione per me. Né per mia sorella e mio fratello. Il nonno sarebbe rimasto con noi.

Mentre fuori la strada cominciava a farsi trafficata, io mi sedetti senza saper cosa dire. Il mio primo giorno di scuola fu il primo giorno in cui a scuola non andai.

CAPITOLO 1

È strano come certi momenti della vita abbiano il potere di fissare nella memoria una serie di particolari, come se nella testa scattasse una fotografia.

Di quella mattina, infatti, ricordo ogni dettaglio: la luce che filtra dalle tendine ricamate a punto croce, la tovaglia a quadretti azzurri, la tazzina di porcellana con un dito di caffè sul fondo, il cucchiaino che tentenna nel piattino mentre papà lo posa.

Mi guardavano come se aspettassero una mia reazione, perfino la credenza sembrava impettita a scrutarmi attraverso i suoi ripiani fitti di bicchieri, ma io mi ero limitata a fissare la scodella con il latte che si intiepidiva.

Nonno Aurelio si era avvicinato a papà e faceva cenni col capo come a dire: Va tutto bene, Miriam, va tutto bene, ma a parte un sorriso stentato sotto la barba, il suo sguardo era così triste che tradiva ogni tentativo di rassicurarmi. Sfilò dal taschino della camicia una caramella toffee e la posò sul tavolo davanti a me.

«Scendo un momento» disse poi, dopo un fragoroso colpo di tosse, e io capii subito che sarebbe andato in giardino ad accudire l’orto, come faceva ogni volta che desiderava stare da solo.

Non toccai la colazione. Strinsi nella mano la caramella e, abbozzando un sorriso a nonna Sara che mi fissava preoccupata, mi allontanai dalla cucina.

In camera mi tolsi l’abito, indossai la camiciola di cotone e rimasi a piedi nudi: capivo perfettamente nonno Aurelio, perché in quel momento anche io sentivo il bisogno di stare da sola. Per questo non ebbi dubbi e salii le scale che conducevano al piano di sopra.

La mansarda era il mio piccolo rifugio. Lo avevo deciso quando, in primavera, nonna Sara aveva smesso di occuparla: era la sua stanza da cucito, ma: «Ci sono troppe scale!» aveva ripetuto incessantemente per settimane: così il nonno aveva traslocato tutto al pian terreno, dove lei aveva ripreso a rammendargli i pantaloni davanti alla grande finestra del soggiorno.

Io adoravo quella mansarda. Innanzitutto era rivestita con travi di rovere: il legno avvolgeva soffitto e pavimento in un abbraccio dorato. C’era poi una piccola cassapanca su cui nonno Aurelio, che era stato un falegname, aveva intagliato una coppia di rose prima ancora di sposarsi: io mi ci potevo accoccolare come un gatto, ma soprattutto, se ci salivo sollevandomi appena sulle punte dei piedi, riuscivo a scorgere dall’abbaino i rami più alti del nostro tiglio e il profilo delle montagne all’orizzonte.

Anche quella mattina, non appena ne varcai la porta, sentii alle mie spalle il ticchettio delle zampe di Cannella. Consideravo Cannella il mio gemello a quattro zampe: aveva sei anni come me e doveva il suo nome all’avidità con cui, fin da quando era un bassotto ancora cucciolo, divorava i biscotti speziati preparati da nonna Sara.

Presi la caramella che avevo conservato e provai a dividerla.

«Tieni, Cannella, facciamo a metà.» Ma sembrava che anche lui avesse perso improvvisamente l’appetito. Si acciambellò sul tappeto vicino ai miei piedi scalzi e io restai lì ad accarezzargli la schiena, con la caramella stretta di nuovo nella mano.

Tutta la famiglia sapeva che mi rifugiavo in mansarda, ma solo una persona aveva il permesso illimitato per entrarci insieme a me: mia sorella Ester.

Ester aveva tredici anni e voleva diventare una maestra. Me lo ripeteva spesso e a volte giocavamo alla scuola: lei mi preparava dei disegni e io li coloravo. Ester e io ci assomigliavamo molto: entrambe avevamo ereditato gli occhi verdi e i capelli mossi da nonna Sara. Inoltre, a differenza di mio fratello Stefano, Ester mi capiva sempre.

Mi raggiunse poco dopo e come al solito bussò alla porta prima di affacciarsi.

«Posso entrare Miriam?» Cannella sollevò il naso. Quella volta però mia sorella non attese la mia risposta: avanzò, chiuse la porta dietro di sé e si sedette con la schiena appoggiata alla cassapanca, vicino a me.

«Sei triste?» mi rivolse la parola, cercando di dare un nome a ciò che provavo. Era difficile per me capirlo, mi sentivo confusa e tristissima. Ester mi capiva sempre.

«Mi sento tristissima, Ester. Perché non possiamo andare a scuola?»

«Ci sono delle nuove leggi, Miriam.» Ester parlava con calma e le sue parole erano più semplici di quelle di papà. Ribadì: «In Italia adesso esistono delle nuove leggi, che vietano agli ebrei come noi di andare a scuola. Per questo oggi non ci andremo né io, né tu, né Stefano. Per noi è proibito.»

Io non riuscivo di nuovo a dire nulla. Mi sentivo troppo piccola e impotente; pensavo che avrei tanto voluto imparare a scrivere almeno il mio nome, ma questo pensiero mi parve anche così sciocco che mi venne finalmente da piangere.

Non so per quanto tempo restammo lì sedute in silenzio; quando ci rialzammo si mosse anche Cannella e mi seguì con devozione: io volevo raggiungere nonno Aurelio.

Sentivo uno strano formicolio corrermi lungo le gambe, perciò scesi le scale a fatica e quasi inciampai davanti alla porta di ingresso.

Nonno Aurelio era seduto in giardino ai piedi del tiglio e mi invitò ad avvicinarmi. In mano aveva la sua pipa ed ero certa che a breve nonna Sara sarebbe scesa a rimproverarlo.

«Si sta bene qui, non trovi tesoro mio?» il nonno mi indicò la chioma dell’albero, ancora rigogliosa sopra le nostre teste. «Non ci crederai ma questo tiglio ha più anni di me! Era già qui prima ancora che io nascessi.» Tirò una boccata profonda dalla pipa e proseguì: «Era qui durante la guerra ed era qui quando tuo padre e tua madre decisero di sposarsi, nel 1920. Ne ha passate tante, eppure non si stanca di stare in piedi, né di farci ombra, sia quando c’è il sole, sia quando il tempo è brutto.» Mentre il nonno parlava, il mio pensiero correva al ritratto dei miei genitori, incorniciato in argento, e al profumo dei fiori di tiglio che inondava l’intera mansarda all’inizio dell’estate.

«Dovremmo imparare dal nostro albero, cara Miriam. Dovremmo cercare di essere simili a lui. Restiamo sempre ben saldi alle nostre radici. Tutto passerà.»

In effetti il vecchio tiglio, con la corteccia ispessita dall’età e dalle vicissitudini, con la sua chioma protettiva che arrivava a lambire il tetto di casa, mi sembrava uguale a nonno Aurelio.

Io, al contrario, continuavo a sentirmi minuscola.

Ero come la fogliolina che iniziava timidamente a ingiallire sulla punta di un ramo sopra le mie spalle, diversa da tutte le altre.

CAPITOLO 2

Se potessi avere

mille lire al mese,

senza esagerare,

sarei certo di trovare

tutta la felicità...

Suonava ogni giorno, la sua era diventata un’abitudine, e mi piaceva. La mamma mi aveva raccontato che Stefano amava la musica fin da quando era piccolo: a due anni aveva sfiorato per la prima volta i tasti del pianoforte nel salotto di casa e da allora non se ne era più allontanato. Era diventato il suo mondo, e le sue note ogni volta riempivano la casa di soave leggerezza:

...Un modesto impiego,

io non ho pretese,

voglio lavorare

per poter alfin trovare

tutta la tranquillità.

Era una cura per la noia. Io e Ester ballavamo spesso seguendo il ritmo di quella melodia che ormai conoscevamo a memoria.

Anche quel pomeriggio Stefano era al piano. Stefano era molto più grande di me, ma era sempre lui che dava una spiegazione alle mie domande (e ne facevo tante!): fu lui ad insegnarmi ad osservare ciò che mi circonda e come avviene. Fu lui a raccontarmi, in modo semplicissimo e chiaro, di come ogni cosa sia formata da minuscole palline segnate da un + e un - che girano velocissime, come se giocassero a inseguirsi. Il mio genio, lui, un mago della chimica, ma bravo anche in  tutto il resto.

Aveva appena dato la maturità classica, con un anno di anticipo, ma anche lui alla scuola nuova non poteva andarci. Forse anche Stefano era triste, e forse, ripensandoci ora, quelle note suonate con tanta forza e decisione erano la sua unica via di fuga da una realtà che in seguito si sarebbe rivelata ancora più impietosa.

Stefano aveva da fare, in quel settembre del ‘38: la sera suonava in un piccolo bar in fondo alla via con qualche compagno e la mattina la trascorreva col nonno, a fare lavori di falegnameria. Ma il pomeriggio era tutto per noi, e mi piaceva tantissimo.

Forse avrebbe avuto una risposta per me anche quel pomeriggio: lui sapeva tutto! Perché non potevo andare a scuola?

Quella volta però fu diverso: Stefano smise per un attimo di suonare, mi guardò... e ricominciò.

Non ebbi la mia risposta, ma mi successe una cosa strana: per la prima volta pensai che anche io avrei potuto suonare, fare magie con quello strumento che da sempre conoscevo ma che parlava una lingua a me sconosciuta; era enorme, di legno nerissimo, ed ero sicura che dentro quella sua pancia si nascondessero tutti i suoni a me così familiari che saltavano fuori quando Stefano li chiamava.

In quel momento decisi che avrei fatto di tutto per realizzare almeno quel mio sogno; ed infatti insistetti con la mamma e con il papà, tormentai Stefano e nonno Aurelio e alla fine ottenni l’aiuto di nonna Sara che mi promise che avrebbe chiamato un’insegnante tutta per me. Io ero entusiasta e il mio cuore un pochino più leggero.

Anche il giorno seguente mi svegliai con grande anticipo; probabilmente dentro di me non avevo ancora realizzato che a scuola non ci sarei proprio potuta andare.

Scesi lentamente le scale, cercando di non farle scricchiolare: il papà e la mamma stavano parlando in cucina. Mi nascosi dietro la porta, anche se mi avevano detto che non si fa e che è grande maleducazione, e li sentii dire che avrebbero trovato una soluzione, magari una scuola per bambini come me, ebrei. Ebrei, di nuovo. Avevo già sentito quella parola da Ester. Ma cosa voleva dire? Cos’erano? Possibile che avessimo una malattia di cui non mi ero mai accorta?

Ero confusa, mi sentivo sempre di più come la fogliolina gialla sul ramo di tiglio. Ma magari non ero poi così tanto diversa, forse ce n’erano altre di foglie ingiallite e piccoline proprio come me.

Ritornai nella mia cameretta e mi riaccoccolai sotto le coperte.

Qualche giorno dopo arrivò Tamar, la mia insegnante di musica. Già solo grazie al nome mi stava molto simpatica: nonno Aurelio mi aveva detto, infatti, che Tamar significa palma da dattero, ed entrambi avevamo sempre amato mangiare quei frutti dolcissimi davanti al caminetto, mentre fuori scendeva la neve, in inverno.

«Vengono dalla Libia, sono prodotti coloniali» diceva il nonno.

Era bella come la mamma, Tamar, con i capelli scurissimi raccolti all’indietro e gli occhi grandi e gentili. Portava vestiti tutti colorati e cappelli stravaganti. Nonna Sara mi raccontò di lei che aveva la mia età quando era arrivata in Italia dalla città greca di Salonicco.

La prima lezione fu una noia mortale. Tutto solfeggi e scale. Mi toccò anche imparare a memoria i nomi delle note e la loro posizione sulla tastiera. Tamar mi dovette spiegare tutto moltissime volte: non mi entravano proprio in testa!

Passai due mesi a suonare, giocare, annoiarmi: mi sembrarono due anni. Non ero allegra, ma neppure troppo triste. Tutti erano gentili con me, anche più di prima. Gli adulti erano molto preoccupati, come smarriti: persino Stefano, il mio eroe. Ma io non me ne accorgevo. Solo dopo, ripensandoci, ho visto, capito, compreso.

Poi, tutto cambiò di nuovo.

Me lo ricordo come fosse ieri: ero con il nonno in cortile, avevamo appena diviso l’ultima caramella rimastagli in tasca. Sentii la mamma chiamarmi a voce alta. Entrai in casa un po’ spaventata: credevo di aver combinato qualche pasticcio, ma trovai mamma e papà seduti al tavolo sorridenti, mano nella mano. Dopo un attimo di silenzio che fece aumentare la mia impazienza, mi annunciarono che finalmente il giorno dopo sarei potuta andare a scuola.

«Alla scuola ebraica» dissero.

Io non ci potevo credere: ero contentissima! Mi avviai di corsa su per le scale, non stavo più nella pelle.

Il cuore batteva, batteva sempre più forte, nella mente si accumulavano immagini dai colori accesi che mi riempivano gli occhi e poi sbiadivano, rapide, veloci.

Sbattei le palpebre un paio di volte ed ecco prendere forma, chiaro chiaro, il mio grembiule lungo fino alle ginocchia, poi ecco la cartella con i libri, e qualche risata in sottofondo.

Un battito di ciglia ed ecco apparire la maestra che spiegava la lezione e scriveva alla lavagna.

Una frazione di secondo, e poi la punta delle dita fresca.

Solo allora mi accorsi di Cannella. Mi aveva raggiunto in cima alle scale e aveva appoggiato il muso sulla mia mano, il suo naso umido mi bagnava le dita.

Respirai a fondo, poi mi sbrigai: volevo prepararmi per bene per il mio secondo primo giorno di scuola.

CAPITOLO 3

La notte non dormii molto. Ero ancora eccitata per quella fantastica notizia. Il mattino seguente, prima di partire con il nonno, mi precipitai in cucina, dove mi stava aspettando la mamma: per l’occasione si era svegliata all’alba e mi aveva cucinato delle frittelle di mele, le mie preferite. Intanto nonno Aurelio, premuroso, andò a prendere il mio cappotto rosso, quello della festa, e, sedutosi accanto, mi attese pazientemente. Quando ebbi terminato di mangiare, corsi in camera mia, indossai il grembiule, presi la cartella con i libri, poi raggiunsi il nonno e insieme ci incamminammo verso la scuola.

L’autunno era la mia stagione preferita e quella mattina, nonostante facesse freddo e il vento gelido mi pungesse le guance, mi divertii a calpestare le ultime foglie che cadevano dagli alberi e a prenderle al volo prima che toccassero terra. In poco tempo ci trovammo davanti alla scuola: la struttura ad angolo era circondata dalla strada, nella quale i bambini e i ragazzi si ritagliavano uno spazio dove divertirsi prima delle lezioni. Il nonno mi prese da parte, si abbassò e mi diede un bacio sulla guancia. Lo abbracciai forte forte, non volevo più lasciarlo andare, perché il cuore aveva iniziato a battere all’impazzata ed io mi sentivo piccolina di fronte a tutte quelle persone a me sconosciute. All’improvviso una folata di vento portò via il cappello del nonno, così lui gli corse dietro per prenderlo, salutandomi precipitosamente. Rimasi sola nel cortile, ma ben presto gli schiamazzi degli altri bambini richiamarono la mia attenzione. Cercai di controllare tutti i sentimenti che si agitavano dentro di me e, a piccoli passi, iniziai ad avvicinarmi all’entrata. Il maestro, un uomo anziano, piuttosto smilzo, con una folta barba bianca ed un paio di occhialini rotondi, ci stava aspettando sorridendo, ma solo adesso, ripensandoci, mi rendo conto che era un sorriso strano, come forzato, però quel giorno ero talmente agitata che non ci feci caso.

La mattinata fu molto divertente: il maestro ci fece fare un giro della scuola e tornati in classe, dopo aver fatto l’appello, ognuno si presentò e parlò di sé. Le ore di lezione passarono velocemente, perché le storie dei miei compagni erano talmente interessanti che ne rimanevo affascinata. Al suono della campanella uscii da scuola, salutando allegramente tutti i miei nuovi amici. Il sole mi illuminò il viso e dovetti alzare il braccio sulla fronte per riuscire a scorgere Ester che, appoggiata al muretto, mi stava aspettando insieme a Cannella. Le corsi subito incontro per abbracciarla: ero felicissima. Anche lei, appena mi vide, mi sorrise, mentre Cannella si mise a scodinzolare. Nel tragitto le raccontai tutta la mia giornata, lei cercò più e più volte di farmi qualche domanda, ma io non le lasciavo neanche finire la frase, che ricominciavo a parlare del mio primo e meraviglioso giorno di scuola. Arrivata a casa, lanciai la cartella a terra e corsi dai miei genitori, desiderosa di ricominciare daccapo a narrare la storia di cui ero stata protagonista quella mattinata.

Mi aspettavano entrambi seduti da un lato del tavolo della cucina. Avevano un'aria abbattuta e tormentata a cui non sapevo dare una spiegazione. Il lampadario che pendeva al centro della stanza evidenziò l'espressione cupa di mio padre, quando mi chiese di andare a sedermi di fianco a lui e il tono basso della sua voce mi suggerì che non c'erano buone notizie. Per qualche motivo mi venne subito in mente la scuola: ebbi paura che mi dicessero che non ci sarei più potuta andare, ma evidentemente la cosa non riguardava solo me, perché la mamma chiamò anche Stefano ed Ester. Ero molto preoccupata per la tensione che percepivo.

«Ragazzi – disse la mamma con quel tono dolce che solo lei aveva – ci sono stati dei problemi a lavoro: il papà ha... litigato con il capo e... ora non può più andare in banca.»

Io la guardai senza parole e papà aggiunse lentamente:

«Dato che non posso più lavorare, non potremo più restare in questa casa.»

Mio fratello si alzò e se ne andò sbattendo la porta, poi iniziò a suonare Mille lire al mese, ma in quel momento mi sembrava tutta un'altra canzone. La forza con cui premeva i tasti del pianoforte, le parole che rimanevano sospese tra una nota e l'altra e tra gli sguardi persi dei miei genitori: in tutto quel rumore c'era un vuoto incombente. Ester si mise a piangere. Ero confusa, non capivo perché tutti fossero così agitati... ero sicura che papà sarebbe riuscito a trovare una soluzione che sarebbe andata bene a tutti, ma, guardandolo, notai che nei suoi occhi era comparso un velo di smarrimento. Ester cominciò una discussione che si fece via via sempre più accesa, ma io continuavo a non capire, lei parlava di soldati e di ebrei e diceva che aveva paura di cosa sarebbe successo alla nostra famiglia. A quel punto cominciai ad aver paura anche io e sgattaiolai di sopra nel mio rifugio dove potevo sfuggire al mondo reale e mi accoccolai sul pavimento, appoggiata alla cassapanca. Sentii Cannella zampettare verso di me, la alzai delicatamente da terra e la strinsi tra le braccia. Lei come risposta si mise a leccarmi il palmo della mano. Rimanemmo appoggiate a quel legno ruvido per parecchio tempo e presto Cannella si addormentò. Io rimasi sola a chiedermi cosa avessero fatto di male gli ebrei per essere così al centro dell’attenzione di tutti; in fondo anche io e la mia famiglia eravamo ebrei, ma ero certa che nessuno di noi avrebbe mai fatto del male a nessuno.

Ero ancora immersa nei miei pensieri, quando il suono del campanello mi riportò alla realtà e mi ricordai che era quasi arrivata l’ora della lezione di pianoforte. Di solito mi fiondavo alla porta ansiosa di cominciare a suonare, ma quel giorno scesi le scale lentamente, soffermandomi su ogni scalino per ritardare il più possibile il mio presunto ultimo incontro con Tamar. Quando aprii la porta e vidi la sua espressione, pensai subito che anche lei avesse ricevuto quella brutta notizia.

CAPITOLO 4

Ci comunicò che non avrebbe più potuto insegnarmi a suonare il piano. I miei genitori e i nonni, a capo chino, annuirono, conoscendone il motivo, ma io ero sempre più confusa e arrabbiata mentre una strana agitazione mista a una sorta di paura si stava impadronendo di me.

Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo alla mia famiglia, intorno a noi: io, Ester e Stefano che non potevamo più frequentare la scuola, papà che non poteva più andare a lavorare in banca e noi tutti che avremmo dovuto cambiare casa. Infine Tamar che non sarebbe più venuta a impartirmi lezioni di musica.

Sentimenti contrastanti si agitavano nel mio animo: incertezza, confusione, malessere, rabbia, paura, insicurezza. Cosa poteva ancora capitare? Volevo che qualcuno mi spiegasse il perché di tutti questi cambiamenti.

Ricordavo ancora bene le parole di Ester quando mi aveva detto che adesso c’erano delle nuove leggi che vietavano agli ebrei come noi di andare a scuola e ora la storia di papà...

Lasciai tutti lì sulla porta di casa e andai alla ricerca di Stefano, forse lui mi avrebbe aiutato a capire e così sarebbe sparita anche la paura che sembrava non volersene andare. Girai tutta la casa, senza riuscire a trovarlo. Probabilmente la notizia appena ricevuta da mamma e papà lo aveva scosso profondamente ed era uscito.

Nei giorni successivi l’atmosfera familiare s’incupì sempre più: il ricordo più vivo che mi è rimasto è quello dei volti preoccupati dei miei genitori e dei miei nonni. Una mattina sentii Ester domandare a Stefano:

«Se papà non può più andare a lavorare, chi porterà i soldi a casa? Con cosa compreremo il cibo per mangiare? Dove andremo a vivere?» Queste domande, ascoltate di nascosto, mi frullavano in testa e non ero in grado di dare una risposta a nessuna.

Il nonno e papà, nei giorni seguenti uscivano presto al mattino per andare in cerca di una nuova abitazione rimanendo poi fuori tutto il giorno. Io al mattino frequentavo la scuola ebrea, ma l’entusiasmo dei primi giorni era passato e, tornata a casa, restavo incollata alla finestra ad aspettare il loro ritorno, sempre più depressa e angosciata... sembrava che per noi ebrei non ci fosse una casa libera da affittare.

I giorni trascorrevano lenti senza nessuna novità: in casa parlavamo poco, l’atmosfera serena e tranquilla era solo uno sbiadito ricordo.

Dopo alcuni giorni, vidi papà e nonno rientrare con passo più veloce del solito e con un viso meno turbato e accigliato. Mi parve strano, ultimamente non li avevo più visti così rilassati, quasi sorridenti. Entrati ci comunicarono la notizia: una famiglia ebrea ci avrebbe ospitati fino a quando non avessimo trovato una nuova sistemazione. I giorni successivi, taciturni e con le lacrime agli occhi preparammo le valigie, chiudendo in scatole e scatoloni tutti i nostri ricordi vissuti in quella casa.

Una sera, particolarmente stanca e con una tristezza che non mi abbandonava mai, andai a rifugiarmi nella mia stanza, quella piccola mansarda in cui avevo trascorso gran parte della mia infanzia. Iniziarono subito a riaffiorare vecchi ricordi, indimenticabili: me, Cannella, i miei fratelli e tutte le bravate vissute lì dentro. Ora mi sembrava cupa e paurosa anche se era sempre la mia solita cameretta, quella in cui passavo interi pomeriggi tenendo compagnia alla nonna mentre cuciva. Forse ero io che stavo cominciando a cambiare, forse per colpa di tutti questi avvenimenti che mi stavano circondando ai quali non ero abituata. Ero sempre più confusa, non capivo più niente di quello che stava succedendo, non capivo l’atteggiamento della mia famiglia che era sempre più distaccata e, quando chiedevo il perché di certe cose che non comprendevo, loro mi guardavano solamente con occhi persi nel vuoto e un’aria triste e cupa.

La notte non riuscivo più a dormire, spesso andavo a cercare rifugio e calore nel lettone di mamma e papà, che provavano a calmarmi, abbracciandomi stretta e dicendomi che presto tutto si sarebbe risolto.

«Devi solo pensare ad andare bene a scuola, a divertirti con i tuoi nuovi compagni, al resto pensiamo noi grandi.» Ma anche queste parole di rassicurazione non bastavano a spegnere l’inquietudine che mi divampava dentro.

Spaventosi incubi popolavano i miei risvegli notturni. Mi vedevo sola, in una casa che non riconoscevo, insieme a persone sconosciute che urlavano costringendomi ai lavori più umili. Mangiavo solo una volta al giorno, intrugli privi di qualsiasi gusto e, quando osavo porre delle domande, venivo rinchiusa in un sottoscala umido e infestato dai topi... e lì mi svegliavo urlante e terrorizzata. Le mie grida strazianti inevitabilmente svegliavano Ester, che saltava velocemente fuori dal suo letto posto di fianco al mio e, cullandomi dolcemente, mi accarezzava i capelli pregandomi di smetterla, che era stato solo un brutto sogno, che ero nella nostra cameretta, al sicuro. A poco servivano anche le rassicurazioni e le parole amorevoli dei miei genitori, che accorrevano trafelati. I singhiozzi che squassavano il mio piccolo petto erano incontrollabili. Solo quando papà o mamma mi prendevano in braccio per portarmi nella loro camera, il pianto lentamente diminuiva, finalmente riuscivo ad allontanare il terrore che faceva battere forte il mio cuore.

Ritardavo l’ora di infilarmi sotto le lenzuola perché sapevo cosa mi aspettava e non volevo si ripetesse. Il pensiero di dover andare a dormire, il sapere di doverlo fare e la consapevolezza di ciò che si sarebbe ripetuto anche quella notte, era per me fonte di un’angoscia continua e costante.

Poi, finalmente. arrivò la sera precedente al trasloco. Tutta la famiglia, come in un corteo funebre, feci il giro di tutte le stanze. Anche i mobili erano già stati portati via, accatastati in una cantina di un amico di papà. Era l’ultima volta che avremmo visto quella casa.

La mattina del trasloco, carichi come muli, attraversammo la città passando davanti a quel negozietto in cui con il nonno compravamo sempre le caramelle mou, che tanto piacevano a entrambi e notammo, appeso alla serranda, un cartello. Chiesi a Ester di leggermi cosa ci fosse scritto e lei rispose con voce afflitta: vietato l’ingresso agli ebrei e ai cani.

CAPITOLO 5

Cominciai a riflettere sulle parole che si trovavano su quell’insegna: perché noi ebrei eravamo paragonati ai cani, cosa avevamo fatto di male per essere odiati così tanto? E soprattutto, cosa significava essere ebreo? A me pareva di essere uguale a tutti gli altri bambini! Mi accorsi di aver pensato ad alta voce quando vidi che tutta la famiglia mi guardava rattristata, ma prima che qualcuno potesse provare a rispondermi il nonno esclamò:

«Eva!»

Alzai lo sguardo e vidi una grande casa: era composta da tre piani, tutta bianca e ciò la faceva risultare ancora più grande. Nel giardino c’erano diverse aiuole, cespugli e una grande quercia che sorreggeva un’altalena su cui sedeva una bambina con delle lunghe trecce di un colore che non avevo mai visto. Teneva un libro fra le mani e, sentendo la voce del nonno, distolse lo sguardo dalla lettura e corse verso l’entrata della casa, urlando allegramente:

«Sono arrivati!»

Dalla porta d’ingresso uscirono alcune persone. Vidi due uomini: uno anziano, che stringeva calorosamente la mano al nonno e l’altro più giovane, che si avvicinò a mio padre e lo abbracciò. Sentii papà sussurrargli «Grazie Aaron...» come se non volesse farsi sentire. Alle spalle di Aaron arrivò una donna che teneva tra le braccia un neonato tranquillamente addormentato; accanto a lei una signora che indossava un grembiule con macchie di diversi colori ci accolse dicendo:

«Scusate l’abbigliamento, stavo dipingendo il ritratto di Elia, il mio nipotino più piccolo.»

A completare il quadro familiare arrivò un ragazzino di circa quindici anni, alto, magro, con gli occhi verdi.

Presi in braccio Cannella, entrammo tutti in casa e ci furono mostrate le stanze in cui avremmo dormito.

Gli adulti si sistemarono nella mansarda. Era molto simile alla mia, c’erano una vecchia cassapanca, una libreria con dei libri impolverati riposti all’interno, molte cornici vuote, varie foto e un oggetto alto e lungo ricoperto da un lenzuolo bianco, che divideva la stanza in due parti, una per i miei genitori e l’altra per i nonni.

Mio fratello portò la propria valigia nella camera di Samuele, il quale lo rese felice informandolo che nel salotto c’era un pianoforte perfettamente accordato.

Ester e io fummo accompagnate nella stanza di Eva, che aveva le pareti di color giallo chiaro: c’erano un letto a castello e uno singolo coperto di cuscini morbidi, ma la cosa che mi colpì fu una libreria colma di libri dalle copertine colorate. Chiesi a Ester di leggermi qualche titolo: Pinocchio, Cenerentola, Peter Pan, Hansel e Gretel... Eva appoggiò sul comodino un racconto scritto a mano, che stava leggendo sull’altalena. Glielo aveva mandato un amico dalla Francia, con il disegno di un bambino biondo con una strana giacca, lunga e azzurra.

«Chi è questo bambino?» Le chiesi.

«È il piccolo principe – rispose – se vorrai questa sera, prima di addormentarci, te ne leggerò qualche riga.»

Ci chiamarono per pranzare. A tavola il clima era molto piacevole, ma mi sentivo lo stesso a disagio; pensai che qui non avevo nessun posto in cui rifugiarmi e stare da sola. Ester come al solito mi comprendeva e si sedette vicino a me, non mi parlava e stava attenta ai discorsi degli adulti ma il suo sguardo mi trasmetteva tranquillità. Si scoprì che Samuele, il fratello maggiore di Eva, amava la musica e suonava la chitarra: Stefano ne rimase colpito e gli propose di suonare insieme dopo cena.

Dopo pranzo uscimmo in giardino, Stefano e Samuele improvvisarono una partita a calcio, io mi sedetti sull’altalena e sentii un rumore accanto a me: un gatto nero con una chiazza bianca sul muso stava graffiando il tronco della grande quercia.

«È Cioppy – mi spiegò Eva – è entrato nel nostro giardino una sera piovosa e lo abbiamo tenuto con noi.»

Il pomeriggio trascorse velocemente e cominciò a farsi buio, perciò entrammo in casa e trovammo le donne in cucina, intente a cucinare chiacchierando.

Terminata la cena, Stefano e Samuele si diressero verso il salotto. Sentii mio fratello dire:

«Ti insegnerò Mille lire al mese

Noi ci ritirammo nella stanza di Eva e io le ricordai la promessa di leggermi qualche riga del racconto. Ci preparammo per la notte, Eva sciolse i suoi lunghi capelli rossi e Ester la aiutò a pettinarli, poi ci sedemmo sul letto e la bambina iniziò a parlare:

«Questo racconto narra la storia di un piccolo principe, che vive su un pianeta lontano e che viaggia per scoprire altri pianeti. Ora è arrivato sulla Terra e ha incontrato una volpe.»

Il brano che Eva mi lesse narrava di come la volpe desiderasse essere addomesticata dal principe, così che tra loro si creasse un legame di amicizia e potessero essere felici entrambi. Mi colpì una frase pronunciata dalla volpe:

Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla.

Comprano dai mercanti le cose già fatte.

Ma siccome non esistono mercanti di amici,

gli uomini non hanno più amici.

Pensai che se gli amici non si potevano comperare nei negozi, allora, anche se non potevo entrare nel negozietto delle caramelle, avrei potuto avere degli amici. Magari proprio Eva sarebbe stata la prima... le palpebre si fecero pesanti, appoggiai la testa sul cuscino e mi addormentai. Sognai di trovarmi di fronte ad un negozio, la porta era spalancata ed io volevo entrare, ma appena mi avvicinai un uomo orribile, gigantesco e minaccioso, chiuse la porta urlando:

«Non puoi entrare!»

Mi misi a piangere, ma poi sentii un tocco leggero sulla spalla, mi voltai e vidi accanto a me il Piccolo Principe.

«Non aver paura – mi diceva – noi siamo amici e gli amici si aiutano sempre. Vieni con me, ti presenterò la mia amica volpe.» Mi prese per mano e iniziammo a camminare in mezzo ai fiori.

Per la prima volta dopo tanto tempo dormii tutta la notte senza avere incubi.

CAPITOLO 6

Mi svegliai riposata. Guardai dalla finestra il cielo che si stava schiarendo: gli enormi nuvoloni grigiastri della sera prima se ne stavano andando chissà dove a portare la loro pioggia.

«Buongiorno.» Mi girai di scatto e da dietro la tenda vidi la sagoma di Eva che si stava preparando per scendere a mangiare colazione. Mi vestii e scesi insieme a lei. I grandi si erano già riuniti attorno al tavolo e stavano gustando dolcetti così profumati che mi facevano venire l’acquolina in bocca solo a vederli.

«Che ne dici di andare in giardino?» fu la proposta di Eva al termine della colazione. Chiese anche ad Ester di raggiungerci, ma lei rispose che doveva sistemare la camera.

Mi sedetti a dondolare sull’altalena con Eva, che aveva cominciato a parlarmi dei vari fiori nelle aiuole. Io, però, non le davo ascolto. Con la mente ero già in un altro luogo ed in un altro tempo...

Sono ai piedi del tiglio con nonno Aurelio, Ester e Stefano. Lui ci sta mostrando le sue verdure nell’orto e io gli chiedo: «E le caramelle, le puoi coltivare?» Le risate dei miei fratelli mi anticipano la risposta del nonno: «No, piccolina, ma il negozietto ce ne darà abbastanza per saziarci.» E ne tira fuori una dalla sua tasca. Mi siedo ai piedi del tiglio e chiudo gli occhi. Sento una melodia provenire dalla radio e odo alcuni passi farsi più vicini: è nonno, che sta per sedersi accanto a me. Inizia a raccontarmi la storia di una bambina che non voleva andare a scuola e mi chiede: «Tu farai così tra qualche anno?» Scuoto la testa e faccio le linguacce. Lui ed io iniziamo poi a canticchiare la nostra canzoncina preferita quando sento una voce che mi sta chiamando...

«Miriam, Miriam. Mi ascolti?» Sgranai gli occhi e mi accorsi che davanti a me c’erano mia mamma ed Eva che mi stavano parlando.

«Il nonno è andato stamattina presto nella vecchia casa e non è ancora tornato. Papà e Aaron sono andati a cercarlo.»

Rimasi turbata. E se al nonno fosse successo qualcosa?

Mi sedetti sulla cassapanca del soggiorno insieme agli altri ragazzi. «Accendiamo la radio.» Disse Samuele.

Subito si sentirono le note della canzone Un'ora sola ti vorrei. Io e Stefano iniziammo a ballare a passo lento e Samuele porse timidamente la mano ad Ester, chiedendole di danzare. Mia sorella, con lo sguardo basso ed un sorriso imbarazzato, accolse la proposta alzandosi lentamente. Dopo alcuni minuti, la melodia si affievolì ed il nostro ballo venne interrotto dalla voce del radiocronista:

Ad un mese dall'evento accaduto nel Terzo Reich, quello che tra la notte tra il 9 ed il 10 novembre ha portato alla distruzione di millequattrocento sinagoghe, case e negozi di ebrei, ricordiamo le parole del gerarca Goebbels: Ich reiche die Sache beim Führer ein. Er befiehet die Demonstrationen frei laufen...

Improvvisamente, la mamma spense la radio, interrompendo quel discorso di cui non avevo compreso alcuna parola. Sentimmo dei passi pesanti nel corridoio e, senza pensarci due volte, corsi loro incontro, già pronta ad abbracciare il nonno. Mi bloccai di scatto: c'era solo Aaron.

«Dov'è papà?»

«Con il nonno.» Rispose lui, con voce fievole. Nella mia testa iniziarono a vorticare mille domande a cui non seppi dare una risposta.

Intuii cosa stesse succedendo, Aaron mi accarezzò con tenerezza una guancia, asciugandomi una lacrima che stava scendendo lentamente e si diresse dagli altri. Non mi resi conto per quanti minuti fossi rimasta in corridoio a fissare il vuoto. Stefano mi venne incontro e mi abbracciò forte forte, come non aveva mai fatto fino ad allora.

Ero quasi certa che i miei presentimenti, che cercavo in tutti i modi di allontanare dalla mia mente, si stessero per realizzare e quell’abbraccio era quello di cui avevo bisogno.

Ester mi raggiunse in corridoio; s’inginocchiò accanto a me, mi guardo negli occhi e, con parole amorevoli, mi disse:

«Miriam, so che è difficile da accettare, il nonno ci ha lasciati e non sarà più con noi fisicamente, ma nei nostri cuori lui continuerà ad esistere. Per sempre!» Mi sentivo persa come un navigatore senza bussola...

Nei giorni successivi, un silenzio irreale contribuì a rendere più cupa l’atmosfera. Troppi fatti spiacevoli erano successi uno dietro l’altro: la scuola, il lavoro di papà, la vecchia casa ed ora il nonno. Che cos’altro avremmo perso ancora? Quali altre disgrazie avremmo dovuto subire? Da quando avevano iniziato a chiamarci ebrei, per noi era diventato quasi impossibile vivere. Ma cosa avevamo fatto di male?

Le ore ed il giorno successivi furono dedicati ai preparativi del funerale, che si svolse nel pomeriggio seguente. La mia famiglia si radunò poi, per l’ultima volta, sotto il grande tiglio per ricordare insieme tutto ciò che di bello era accaduto sotto la sua ombra, quando il nonno era ancora con noi.

Alla sera, mentre eravamo tutti attorno al tavolo, le parole sussurrate da papà interruppero il silenzio:

«Andiamocene.»

Un mormorio iniziò a riempire la sala.

«Andarsene? Ma dove?» Esclamò la nonna, dando voce ai pensieri di molti.

«In Svizzera – fu la risposta – dopo quello che è successo al nonno, qui non siamo più al sicuro. In Svizzera ho dei vecchi amici. Là potremo tornare a vivere serenamente.»

«Si può sapere cosa è successo esattamente al nonno?» Provai a chiedere.

«Ho assistito ad una scena orribile – disse papà – che non dimenticherò mai e che mi auguro voi non vediate mai. Stavo raggiungendo il nonno alla vecchia casa, quando ho sentito delle voci e ho visto un uomo, se così si può definire, che lo stava minacciando. Ho cercato di correre in suo aiuto, ma quando sono arrivato era troppo tardi: l’uomo era scappato e il nonno si era accasciato a terra. Non aveva retto allo spavento ed il suo cuore aveva ceduto.»

Nessuno fiatava, in sala. Il silenzio fu rotto, questa volta, dalla mamma:

«Quando partiamo?»

Samuele si alzò di scatto:

«Se Ester se ne va, io vado con lei.»

«Non partirai da solo. Andremo via tutti.» Dalle parole di Aaron, nacque un nuovo silenzio.

CAPITOLO 7

La mattina seguente vidi la mia famiglia e quella di Eva indaffarate a preparare i bagagli, in silenzio, senza fiatare. Ero confusa, non capivo cosa stesse succedendo; provai a chiedere a Ester il motivo di questa confusione. Mia sorella era talmente impegnata nei preparativi che nemmeno mi considerò.

Dato che tutti mi ignoravano, decisi di andare in camera mia; appena entrai notai un bagaglio vuoto sul mio letto. Intanto qualcuno bussò alla porta: era Stefano, che finalmente mi tranquillizzò, dicendomi che i bagagli servivano per andare in Svizzera, dove saremmo stati in salvo.

Uscimmo di casa per caricare le nostre cose sul camion che le avrebbe portate ai piedi delle Alpi; noi invece ci incamminammo lungo sentieri scoscesi per tentare di raggiungere il confine. Il terreno era pieno di conche, profonde e buie, nonostante ciò non perdemmo mai la voglia di ispezionarle, sperando di trovare un qualsiasi  alimento o oggetto utile.

Camminammo a lungo, poi udimmo dei versi: ci facemmo coraggio e cominciammo a correre dannatamente: era un enorme capriolo, tanto grande da sfamarci tutti!

Rimaneva però un problema fondamentale: chi lo avrebbe ucciso? Fortunatamente il padre di Eva passò oltre i suoi timori e procurò il cibo per qualche giorno.

A un certo punto del nostro viaggio, sentimmo passi pesanti e il rumore di un motore arrivare verso di noi, allarmati, ci nascondemmo tra gli arbusti mentre i papà andarono a controllare e le mamme con la nonna aspettarono con ansia l’arrivo dei mariti. Stefano e Samuele, sentendo delle urla in lontananza, si nascosero  in un cespuglio vicino e le donne andarono a controllare, ma anche loro vennero catturate dai tedeschi.

Eravamo terrorizzati per l'arrivo di altre guardie tedesche e, nel vedere il camion sul quale c'erano mamma, papà e la nonna, io, Ester ed Eva, spaventate, corremmo dai nostri fratelli dietro il cespuglio.

«Dobbiamo scappare, è troppo pericoloso stare qui.» Ci disse Stefano, che ci prese per mano e ci condusse lungo un sentiero oscuro.

Per darci coraggio cantavamo le canzoni che ascoltavamo un tempo alla radio, fino a quando non si sentì un rumore sospetto; Stefano e Samuele ci nascosero e andarono a controllare se c'erano guardie. Avevamo un incredibile batticuore, per paura che i ragazzi non tornassero più. Udimmo alcuni passi affrettarsi verso di noi, trattenemmo il fiato: Stefano tornò.

«Era un leprotto – ci disse – ma dovete venire a vedere cos'abbiamo trovato.»

Di soppiatto ci avvicinammo al luogo indicato da nostro fratello e dietro alcuni alberi notammo una piccola casa di montagna, il caminetto fumava.

«Sarebbe un ottimo rifugio per la notte, se non fosse abitata.» Dissi sottovoce; tutti acconsentirono.

Samuele, quatto quatto, sbirciò dalla finestra: nessuno. Impauriti, decidemmo di bussare.

Ester, Eva e io eravamo terrorizzate, ma quando un signore anziano venne ad aprirci la porta, capimmo che non c'erano pericoli e tirammo un sospiro di sollievo.

«Da dove venite – ci chiese – e cosa fate qui da soli in alta montagna?»

Stefano rispose che avremmo raccontato tutto, ma che al momento avevamo soltanto bisogno di un rifugio per la notte.

«Potrebbe ospitarci, per favore?» Nel frattempo sopraggiunse un'anziana signora, che ci fece cenno di entrare. I due parevano molto gentili, ci fecero sedere e noi spiegammo loro la nostra situazione.

La mattina seguente, prima di partire, ci donarono dei cavoli raccolti nel loro orto, delle mele e qualche patata. Mettemmo tutto nella sacca di Ester e ripartimmo, il terreno della montagna era scosceso, ma continuavamo ad avanzare verso la Svizzera, ad un certo punto notai sul sentiero tracce di ruote; mi pareva che fossero quelle del camion che aveva portato via le mamme, i papà e la nonna, ma non ci feci molto caso.

Ci fermammo per una breve sosta dopodiché, dato che noi ragazze eravamo più lente di Stefano, ci incamminammo prima di lui, scortate da Samuele.

All'improvviso, dall'altura in cui mi trovavo, vidi una scena che non dimenticherò mai: due soldati sbucarono da dietro un albero gridando in tedesco:

«Beweg dich nicht!» (non ti muovere!), Stefano cercò di svincolarsi dalla stretta degli aggressori, ma quando mi girai era già sul camion che se ne andava.

CAPITOLO 8

Quando Stefano salì sul camion un brivido mi attraversò la schiena: non dimenticherò mai quella scena! Caddi in una sorta di trance, in cui passarono pochi secondi che parvero anni...

A risvegliarmi da quello stato di torpore fu Samuele, che mi mise una mano sulla spalla e mi disse di correre. La nostra corsa fu interrotta dalla visione di un grande lago: era un pomeriggio cupo e una spessa coltre di nuvole grigie impediva di vedere il panorama. Grigio era anche il colore del nostro stato d’animo! Eravamo tutti rassegnati e le lacrime solcavano i nostri volti, ma una forza interiore ci spronava a continuare. Cercavamo tutti di nascondere le nostre vere emozioni: la paura, la tristezza e anche la rabbia che provavamo verso i tedeschi e ci chiedevamo cosa avesse reso gli uomini così disumani e perché Dio – ammesso che esistesse – permettesse tutto ciò. Continuavamo a sperare che i nostri parenti si fossero salvati e che ci stessero cercando, ma noi non potevamo fermarci ad aspettarli... dovevamo fare qualcosa!

Le due settimane che seguirono furono le più brutte della mia vita. Non riuscivo a dormire e spesso mi svegliavo in preda agli incubi. Una notte sognai Stefano: stava suonando, mi unii a lui... era tutto così bello! Improvvisamente si girò verso di me.

«Ora devo andare!» Mi disse. Iniziai a piangere e lui mi asciugò le lacrime.

«Non piangere – aggiunse – ti prego! Ci incontreremo ancora!» Poi si alzò, raggiunse un cancello e sparì. A qual punto mi svegliai.

Il giorno successivo, giunti su una piccola altura, notammo, in basso, un centro abitato. Samuele decise di recarsi in quel paese da solo e quando tornò ci disse che un uomo era disposto a trasportarci in camion fino al confine con la Svizzera. Raggiunto il paese, il nostro autista, che si chiamava Giuseppe, ci invitò a salire sul camion. Eravamo pronti a partire, quando l’arrivo di una Volkswagen impedì all’uomo di mettere in moto il veicolo. Dall’auto scesero cinque uomini in divisa nera: tutti indossavano un elmetto, tranne uno, che doveva essere il comandante e che cominciò ad urlare costringendo Giuseppe a scendere dal camion. Uno dei cinque puntò il suo fucile alla sua schiena, mentre il comandante, con la pistola in mano, gridava.

«Was machst du?» Giuseppe tacque e il comandante lo colpì in fronte con l’impugnatura della pistola, così da farlo cadere e ruzzolare a terra. Giuseppe gli rivolse un insulto in tedesco e immediatamente un proiettile gli trapassò la testa, creando un’enorme pozza di sangue. Quando vidi i soldati avvicinarsi al furgone io, Ester ed Eva ci nascondemmo dentro una botola e ci ritrovammo nella parte inferiore del camion, invece Samuele si rifugiò all’interno di una cassa. Sudavamo freddo e vedemmo un giovane soldato chinarsi e guardare sotto al furgone: ci notò e, comunicando a gesti, lo implorammo di non dire niente.

«Io non sono come loro...» Ci disse, sottovoce, poi informò il suo capo che nel furgone non c’era nessuno. Finito il rastrellamento e lasciato il veicolo, continuammo a piedi.

Dopo molte ore raggiungemmo il paese di Bellinzona. Avevamo raggiunto la Svizzera! Lì incontrammo un uomo che, dopo aver capito che eravamo dei giovani ebrei, ci fornì delle informazioni su una certa Teresa Gerber di Roveredo: la donna accoglieva gli ebrei e gli sfollati nella sua casa da anni e, senza alcuna titubanza, accolse anche noi. La signora Teresa ospitava, in quel momento, altre persone che sfuggivano alle persecuzioni dei nazisti e dei fascisti. Diventai amica di Monica, una bambina della mia età, ed ebbi l’occasione di imparare a suonare la chitarra. Furono anni sereni, anche se la guerra continuava ad affliggere l’umanità, la signora Teresa era per tutti noi una madre amorevole.

Finita la guerra, tornammo in Italia dove ci attendeva la nostra vecchia casa, che era ormai a pezzi. Una volta entrati notammo che la casa non era del tutto abbandonata: il pianoforte era stato lucidato e c’erano delle impronte per terra. Allora uscii, mi misi a correre e, seguendo il mio istinto, raggiunsi il bar che si trovava alla fine della strada, entrai e vidi Stefano suonare il pianoforte davanti a una folla di persone danzanti e ubriache. Gli occhi mi si riempirono di lacrime di gioia e andai ad abbracciare mio fratello. Lui, ovviamente, non si aspettava di vedermi.

Fu quella una delle sere più felici di tutta la mia vita!

Negli anni non avevamo mai perso i contatti con Samuele ed Eva che non avevano più rivisto i loro cari. Periodicamente ci incontravamo. Io ed Eva eravamo diventate delle giovani donne e fu durante uno dei nostri incontri che mi confidò di essersi innamorata di un ragazzo francese che voleva sposare, nonostante il parere contrario del fratello che lo aveva definito sporco francese.

A quel punto mi sentii in dovere di intervenire e affrontai Samuele ricordandogli che noi stessi, in quanto ebrei, eravamo stati vittime di discriminazione e aggiunsi che mi sembrava fuori luogo utilizzare stereotipi ed epiteti come aveva fatto lui. Rattristato dalle mie parole, mi diede ragione e chiese scusa alla sorella che sei mesi dopo sposo il giovane francese.

CAPITOLO 9

Sento provenire dalla mansarda uno strano lamento; mi fermo sul primo gradino e mi accorgo che è il pianto della piccola Sara, che si è rifugiata lì. Preoccupata di quanto possa essere successo, mi precipito su per le scale e vedo mia nipote coricata supina, con la faccia affondata nel cuscino. Piange a dirotto.

Mi avvicino e la accarezzo delicatamente sulla testa.

«Tesoro, che ti è successo – le chiedo – vuoi raccontarlo alla nonna?»

Sara è sempre stata molto legata a me, sia perché mi sono occupata di lei fin dai suoi primi mesi, sia perché caratterialmente siamo molto simili. E anche lei, come facevo io da bambina, quando avevo una preoccupazione, si rifugia in mansarda dove si sente protetta da tutto. Con la voce rotta dai singhiozzi mi racconta quanto successo a scuola.

«Oggi ho notato che i compagni mi evitavano, non riuscivano neanche a guardarmi in faccia. Così ho passato la giornata da sola, senza nessun compagno di banco o qualcuno con cui parlare. Al posto della lezione abituale la maestra ha incominciato a spiegare la situazione disastrosa che sta vivendo il mondo intero: la diffusione di un virus, partito dalla Cina, che sta provocando tanti morti. Mi sono sentita un’emarginata.»

Mentre la guardo, nei suoi occhi a mandorla pieni di lacrime, riprovo le sensazioni vissute da bambina.

«Anch’io da piccola sono stata esclusa dalla scuola frequentata da tutti i miei amici perché ebrea. – Provo a consolarla – Ero molto triste, ma poi mio nonno Aurelio mi ha fatto sedere sotto il nostro grande tiglio del giardino e mi ha detto: “Guarda questo albero Miriam; era qui prima che io nascessi, era qui durante la guerra , ne ha passate tante eppure non si stanca di stare in piedi né di farci ombra.” Dovremmo imparare dal nostro albero, cara Sara, che è ancora lì, ed essere simili a lui, perché tutto passerà , anche quello che oggi ci sembra terribile.»

«Sai – continuo – tuo nonno e io abbiamo adottato figli di nazionalità diversa, come la tua mamma che è di origine cinese, o i tuoi zii che sono uno tedesco, uno peruviano e uno nigeriano, proprio per dimostrare che si possono superare queste assurde discriminazioni.»

Detto ciò le porgo una caramella toffee, che prendo dalla tasca, ma lei la getta a terra. Trova che sia un gesto inutile per sistemare la situazione. Allora la raccolgo e le racconto il significato di questa caramella. Il pianto e la rabbia si placano. Comincia a comprendere il senso delle mie parole.

Mentre si asciuga le lacrime il suo sguardo si posa su un oggetto nascosto in un angolo, che non aveva mai notato prima: una bella cassapanca mezza bruciacchiata, chiusa lì in soffitta. Io le rispondo che è un ricordo di mio nonno Aurelio: era falegname e quella cassapanca l’aveva costruita lui. Sara sembra stare meglio e inizia a farmi molte domande su com’era questo nonno così speciale. Poi mi chiede di accompagnarla al negozio dove con lui compravo quelle caramelle, per fare lo stesso. Io sorrido e le rispondo di prepararsi per uscire. Prendo il mio cappotto e il suo, glielo appoggio sulle spalle invitandola a indossarlo.

«Possiamo portare Cannella con noi?» Faccio cenno di sì e usciamo di casa con il giovane labrador. Mentre percorriamo la strada per raggiungere il negozio, prendo Sara per mano e mi torna in mente che nonno Aurelio faceva lo stesso con me. In lontananza iniziamo a intravedere il negozio. Arrivate lì davanti, però, mi vengono in mente ricordi cupi: il cartello, la morte del nonno e i sentimenti che avevo provato quando uscirono le prime leggi antisemite. Mi sentivo come un granello di sabbia, insignificante, di fronte a qualcosa di vasto e incomprensibile. Emergono nello stesso momento molte emozioni: paura, tristezza, rabbia, che si trasformano in un senso di vuoto. La cosa che mi spaventava di più era il fatto che gli ebrei venivano esclusi dalle scuole e da tutti i luoghi pubblici. Ricordo come fosse ieri l’oscura tristezza di quando c'erano le persecuzioni e non capisco ancora oggi il motivo dell'odio che provavano le persone verso di noi. Dopo un momento di vuoto, mi accorgo che le strade sono deserte e il cielo è grigio, proprio come lo ricordo ai tempi del fascismo.

Stiamo tornando a casa, Sara e io, con le nostre caramelle. Le racconto della paura che avevo provato durante la fuga dai nazisti, di quando eravamo agli sgoccioli, quasi al confine con la Svizzera, di come mi sentivo intimorita, con poche speranze, ma anche con molta rabbia nei confronti dei tedeschi e con un estremo desiderio di farcela e di non arrendermi, di tornare a una vita normale. Questo mi aveva permesso di farcela.

Mi emoziono a raccontare questi fatti, nonostante io lo abbia già fatto molte volte.

«Caspita nonna, non pensavo avessi un passato del genere. Mi è venuta un’idea: che ne dici di venire a raccontare la tua storia ai miei compagni di classe? Così potrai farli riflettere sulla discriminazione razziale!»

Non ci avevo mai pensato. «Sì, va bene.»

L’esperienza nella scuola di mia nipote mi sta convincendo di quanto sia importante, che i giovani sappiano ciò che è accaduto in quegli anni, non solo dai libri di storia ma dalla testimonianza autentica di chi ha vissuto e provato quei momenti. In questa classe, con tutti gli occhi dei ragazzi che mi osservano, capisco che il mio dolore è condiviso, che sono riuscita a trasmettere qualcosa e questo mi dà coraggio e forza per intraprendere una nuova avventura: ogni anno, finché vivrò, andrò nelle scuole per raccontare la mia esperienza, per far in modo che questo messaggio rimanga scolpito nelle loro menti e nei loro cuori sperando che queste atrocità non si debbano ripetere mai. Sono molto fiduciosa nei giovani: vedo i loro volti , posso cogliere le emozioni nei loro occhi ai miei racconti e penso che di questo messaggio faranno tesoro. Sarò contenta se anche uno solo di loro in futuro si ricorderà di tutto questo, perché ciò significherà che la memoria non è andata persa. E che la libertà non sarà mai più proibita.

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