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questo racconto è tratto dal libro canzoni sotto il banco

la scorsa settimana un mio racconto ha avuto l’avventura di finire in una prova invalsi... accadde anche quattro anni fa, quando il testo scelto fu questo

uffa

«se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!»

fu così, perentoriamente, che martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa.

«non ora, marta. ne parliamo un’altra volta.» fu la risposta.

ma quel nome, marta anziché martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. era il nome dei discorsi seri, mentre martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri.

in effetti, martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine.

uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com’era da tutti gli altri uffa sbrodolati senza motivo.

e la mamma quella parola non la sopportava proprio. non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore.

quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. secondo lei – e non aveva poi tutti i torti – era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere.

quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l’avrebbe persa in meno di una settimana.

fu così che, certa di avere toccato i sentimenti della mamma, martina non aggiunse nulla e, facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta.

l’argomento cucciolo non si toccò più per qualche giorno, ma martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anzi di sottolinearli tutti con il tono, per far si che la mamma non si scordasse.

mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. inequivocabilmente. se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. anzi, uffa!

i piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto.

tornata da scuola, infatti, non fece in tempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni!

descrivere le urla emozionate di martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole.

intanto la mamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. credo che la gioia esplosiva di martina, la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé ed anche della figlia.

dopo una buona mezz’ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e, con tono affettuosamente severo la ammonì:

«martina – già, questa volta non disse marta! – io non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.»

e poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa!

«tranqui, mà, promettissimo!!!» rispose martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane.

il pomeriggio passò in fretta.

quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di martina, non poté non udire la voce di sua figlia, intenta a raccontarsela con il cane. non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole:

«vieni qua, uffa! siediti uffa! non così, dai, uffa!»

lo sguardo le si incupì. certo si aspettava che martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente.

aprì con decisione la porta della camera e lì si pose ritta.

«marta...» rieccola col nome solenne.

in uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari ed il senso di responsabilità.

cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente.

il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi.

non ebbe, infatti, il tempo di esporre a parole tutta quella roba, perché martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse:

«mamma! indovina?! l’ho chiamato uffa

© andrea valente
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